Così Carlo Petrini diede l’ultimo saluto all’amico Dario Fo

Così Carlo Petrini diede l’ultimo saluto all’amico Dario Fo

È un commosso Carlo Petrini che sale sul palco di Piazza Duomo a Milano per dare l’ultimo saluto all’amico di sempre Dario Fo, in una giornata scandita dalle ultime istruzioni lasciate dallo stesso Dario, con le sue canzoni e la sua musica.


«Dario ha voluto curare quest’ultima regia e io per amicizia e per affetto mi trovo a fare questa difficile parte. Con tutto il rispetto del luogo sono vittima di un bello scherzo da prete. E chiedo a voi benevolenza e comprensione se mi limiterò a ricordare due episodi significativi e importanti della mia lunga amicizia con Dario, uno pubblico e uno privato. Prima di tutto però lasciatemi dire una cosa: in questi giorni molte persone oneste e sincere hanno tenuto a sottolineare la differenza tra l’artista, il genio straordinario, l’attore meraviglioso, e la politica. Quasi come se le due cose fossero scindibili. Ecco io voglio dire, con tutto il rispetto, penso che questo sia impossibile e non sia giusto. E ben lo sapevano quei sovversivi dell’Accademia svedese che motivarono il suo Nobel con una sintesi perfetta: “seguendo la tradizione dei giullari medievali dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”. Sono accademici, sono svedesi e fanno questa affermazione! Loro che poi l’anno successivo, nel riconoscere lo stesso premio a José Saramago, motivarono il suo Nobel per la sua straordinaria immaginazione e che poi nel 2006 lo diedero a Orhan Pamuk per la nostalgia della sua città natale. Ecco, questo premio dato a Dario, nella sua valenza artistica, era impregnato di grande politicità. E noi dobbiamo riaffermare con forza questa simbiosi strettissima tra la sua arte e il suo impegno politico. Lui che è sempre stato guidato da un grande senso civico, con grande onestà, senza ricavarne benefici, sempre al fianco dei più umili. Pensare a Dario senza la politica è come dalle mie parti se dovessimo pensare a un buon vino fatto senza uva.

E oggi voglio partire da questa politicità nel ricordo di quella che per me è stata un’esperienza straordinaria e che voglio condividere con voi. Quando nell’ottobre 2012 davanti a 7000 delegati di Terra Madre, contadini, pescatori, nomadi, artigiani del cibo, difensori della biodiversità del pianeta provenienti da 140 paesi del mondo Dario volle rappresentare la fame dello Zanni. E per la prima volta quando salì davanti a quell’immenso pubblico, dopo aver sentito come questa parte dell’umanità è chiamata a soffrire grazie a un’economia finanziaria canaglia che distrugge la loro dignità e il loro lavoro, Dario ricordò che nel ‘500 lo Zanni padano, il Giuan, era anche lui vittima di questo sopruso, perché già allora si accumulavano derrate alimentari per poi immetterle nel mercato e far crollare i prezzi e distruggere la vita dei contadini. E lo ricordò davanti a quella straordinaria umanità. Aveva davanti 7000 Zanni, parlavano lingue diverse, la maggior parte non conosceva Dario Fo, come potevano conoscerlo gli indios dell’Amazzonia, i pastori masai del Kenya, i contadini del Burkina Faso, i pescatori della Tailandia. A un certo punto, in un momento estremamente impressionante, si dovettero fermare tutte le traduzioni, dieci traduzioni in lingua che davano a tutti l’opportunità di capire quello che si andava dicendo. Si fermarono perché Dario incominciò il suo gramelot, dichiarando che non era quello originale ma era quello della sua fantasia. Descrisse la fame dello Zanni, che prima prende parte del suo corpo e se lo mangia dalla fame che ha, e poi si immagina in un’immensa cucina in cui c’è di tutto, ogni ben di Dio e prepara un pasto straordinario. I primi due o tre momenti quei volti guardavano questo ottuagenario che si esprimeva col corpo, poi cominciarono a intuire che tirava il collo a una gallina, che tagliava a fette il salame, videro che accendeva il fuoco della caldaia, capirono che c’era il sale, il pepe, che lui girava il mestolo per preparare questo pranzo e cominciarono a entrare in sintonia pur senza capire niente di quel gramelot: ma era la rappresentazione visiva di un messaggio, della vergogna della fame e della malnutrizione sofferta ancora da milioni di persone. Ebbene, questa parte di mondo non merita questa logica canaglia di un’economia finanziaria. E allora quando poi Dario prese questo calderone e cominciò a mangiare a quattro palmenti, sazio, come per incanto si accorse che era tutta fantasia, che non c’era niente da mangiare e urlò il fatto che non c’era niente. Ma a un certo punto una mosca incominciò a girare, a voltargli attorno e lui la prese e questa mosca diventò il suo pasto: quelle ali, quelle gambe che ricordavano i prosciutti. E la mangiò, la divorò e chiuse urlando davanti a tutti, “che magnata!”.

E a quel punto i 7000 contadini fecero un applauso straordinario perché avevano riconosciuto quello che è l’elemento distintivo della tradizione contadina: l’oralità. Quell’oralità che i nostri contadini provavano nelle stalle sentendo la storia di Bertoldo, quell’oralità che i contadini francesi avevano ripetendo Gargantua e Pantagruel, e la sentirono loro in modo uniforme, c’era quell’oralità che nei villaggi indiani gli anziani esprimono raccontando le loro storie. Dario ha fatto la sintesi e in quella sintesi sta il suo vero Premio Nobel: ha parlato agli umili e gli umili della terra lo hanno capito. Guardate, penso che la sua regia prevedesse anche questa pioggia, perché solo dei coraggiosi stanno qui per rendergli omaggio sotto tutta quest’acqua.

L’ultimo ricordo che voglio condividere è di appena cinque giorni fa, quando nel suo letto di ospedale ci ha trattenuti per un’ora e mezza a descrivere le visioni che aveva davanti, nella parete. E mi diceva: “sai, non lo governo io, questo copione non l’ho fatto io, lo sto interpretando, e vedo queste figure perché sono drogato, perché le medicine che mi danno per non soffrire mi rendono impotente”. Ma lui oltre alle figure sentiva delle voci e ci disse che quelle voci sono quelle che nella drammaturgia shakespeariana e nel Ruzzante sono le voci dei pazzi, dei matti, che sono fuori di noi ma diventano parte di noi. Ed ecco che a quel punto cita il pazzo che davanti alla Croce parla col Cristo, cita il pazzo becchino che parla con l’Amleto, il pazzo, il matto che parla con Re Lear. E allora, quando sono uscito, impressionato da questa manifestazione, sono andato a vedere cosa diceva il pazzo a Re Lear: “troppo in fretta sei invecchiato, non hai fatto in tempo a diventare saggio”. Lo scriveva Shakespeare. Ma un secolo prima il Ruzzante, grande maestro di Dario, scriveva di se stesso: “troppo in fretta mi sono invecchiato, non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera imbecillità della giovinezza”. Ma che bel finale, Dario! Sei arrivato a 90 anni e ci hai consegnato la bellezza della tua intelligenza e della tua giovinezza. Ed è per questo che, come si dice dalle mie parti, tanti di noi farebbero la firma per avere un finale del genere.

Ed è per questo che noi oggi dobbiamo celebrare sotto la pioggia la gioia, l’allegria, consci che celebriamo una vita spesa nella generosità e nella solidarietà. E non la celebriamo solo per Dario ma lo facciamo anche per Franca. Un giorno nel vederla sempre così attiva, trafelata, la definii con una parola piemontese “sfaragià”, ma lei a sentire questa parola si ribellava, diceva “sfaragià a me? Io sono l’unica in questa famiglia, mi devo accudire due matti in casa! Ho un monumento e io sono il basamento, io lo reggo con la mia schiena, con la mia testa. Il monumento non sta in piedi senza la base”. E oggi noi dobbiamo essere felici, felici perché dopo tre anni quel monumento si ricongiunge con il suo basamento. E dobbiamo essere felici di averli conosciuti, dobbiamo essere felici di averli amati, dobbiamo raccontare ai nostri figli e ai nostri nipoti che abbiamo conosciuto queste persone, che ci hanno insegnato che per quei quattro giorni che abbiamo da vivere è meglio essere generosi che avari, è meglio darsi da fare che accidiosi, è meglio essere gioiosi che magonosi. È questa la giornata che celebriamo, e che piova ancora di più, tanto a noi non interessa. Perché questo sabato di fine settimana noi stapperemo le bottiglie, e in questo mezzogiorno tornando nelle nostre case mangeremo e berremo e canteremo e se possiamo balliamo, e se possiamo facciamo l’amore, esprimiamo tutta la nostra allegria, ritroviamo la gioia, la gioia straordinaria di chiamarci compagne e compagni, non solo perché dividiamo il pane, ma perché condividiamo la gioia, la fraternità, e questo nostro amore reciproco che non lascia spazio a cattiverie di alcun genere. Noi siamo e vogliamo essere così. E celebriamo il più grande tra di noi che aveva la capacità di dileggiare i potenti con uno sberleffo. Allora, oggi allegri bisogna stare che il troppo piangere non fa per noi. Allegri bisogna stare perché il troppo piangere non rende onore ai nostri amici. Allegri bisogna stare perché celebriamo la vita, il grande mistero della vita e della morte, l’unico grande mistero buffo della nostra precaria esistenza».

Perché poi, come ha ricordato Jacopo salutando suo padre, «non è mica possibile che uno muore veramente, dai, si fa per dire. Sono sicuro che adesso papà e mamma sono lì insieme e si fanno delle gran risate. Grazie compagni».

E sulle note di Bella Ciao, ti salutiamo Dario, abbraccia Franca da parte di tutti noi.

Articolo pubblicato il 15 ottobre 2016 su Slowfood.it