Tesi di laurea su Franca Rame di Eleonora Savinetti: intervista a Jacopo Fo

Tesi di laurea su Franca Rame di Eleonora Savinetti: intervista a Jacopo Fo

Eleonora Savinetti, studentessa di Arti e Scienze dello Spettacolo presso l’Università La Sapienza di Roma, intervista Jacopo Fo per la sua tesi di laurea triennale dedicata a Franca Rame e intitolata “Il teatro come autocoscienza collettiva. L’esperienza di Franca Rame”.

Riportiamo l’intervista in seguito.

Intervista a Jacopo Fo – Roma, 13 luglio 2021.


Buongiorno Jacopo, innanzitutto ti ringrazio tantissimo per la disponibilità. Sto scrivendo una tesi su Franca Rame, partendo dalle sue esperienze teatrali con Dario Fo per poi analizzare anche il periodo storico – gli anni di piombo – in cui si sono trovati a lavorare: anni di forte mobilitazione politica in Italia, tra rivolte studentesche, terrorismo e la nascita del movimento femminista. A proposito del femminismo, volevo chiederti quali erano i suoi rapporti con esso. Avendo visto le sue commedie e i suoi monologhi, mi sembra che ne siano stati molto influenzati.

Partiamo proprio da questo ultimo punto. Mia madre è la prima grande attrice che mette in scena sé stessa. Questa è la grande novità del suo teatro. Cioè lei in Sesso? Grazie, tanto per gradire (e in una serie di altri spettacoli, però diciamo che Sesso? Grazie, tanto per gradire è uno dei testi più rappresentati nel mondo e sicuramente, credo che sul tema femminista sia il più rappresentato al mondo), in questo spettacolo lei non recita, lei racconta la storia della sua vita sessuale: questo va a rompere gli schemi del rapporto tra spettatore e attore. Di solito lo spettatore va a teatro per vedere non l’attore che racconta sé stesso, ma un attore che interpreta – più o meno magistralmente – una parte, un ruolo, un personaggio. Questa è stata la prima cosa fondamentale.
La seconda cosa fondamentale è stata il fatto che mia madre ha avuto il coraggio di raccontare quello che non era raccontabile e che ancora oggi è difficilmente raccontabile, arrivando a mettere in scena una cronaca dello stupro e delle torture che aveva subito. Questo è stato un qualcosa di potentissimo: mia madre, per rendere l’idea di quanto fosse difficile, per molti anni rappresentò questa scena in particolare non dicendo che era lei la donna violentata. Adriano Celentano, quando lei rappresentò questo spettacolo in televisione disse: «Questa è la storia della violenza che Franca ha subito.» Io incontro ancora oggi delle donne che mi dicono: «Grazie a tua mamma io ho avuto il coraggio di raccontare del mio stupro». Perché ancora oggi c’è questo elemento, ma quaranta, cinquant’anni fa era molto più potente il fatto della vergogna legata allo stupro. Mia madre aspettò 24 ore prima di denunciare lo stupro e le torture che aveva subito, perché anche per lei era un qualcosa di veramente difficile. Questi due elementi quindi, il portare in scena la propria storia di donna e avere il coraggio di rappresentare la violenza subita, sono stati le due cose che l’hanno portata nei fatti, non in maniera ideologica, a fare qualcosa che è stato in qualche modo “storico”, nel senso che ha cambiato la prospettiva in cui molte donne guardavano la propria posizione.

Riguardo all’essere riuscita a fare qualcosa “nei fatti” e non solo a livello ideologico è un fatto che ho riscontrato anche io, per esempio nella costruzione dell’immagine della donna all’interno delle sue commedie, che – per tante cose – mi sembrano ancora attuali e nell’approccio colpevolista che hanno spesso, anche ai giorni nostri, le forze dell’ordine nei confronti delle vittime di violenza. Mi sembra che attraverso il suo teatro sia riuscita a creare una sorta di “autocoscienza collettiva”, nonostante, se ho ben capito, non fosse una femminista militante, non approvando tutte le istanze del movimento femminista.

Però il movimento femminista non si può ridurre alle istanze di alcune donne intellettuali: il femminismo è stato un movimento di massa e da questo punto di vista mia madre vi era dentro totalmente. Questo riguarda anche tutta la percezione di questo periodo di lotte degli anni Sessanta e Settanta. Quello di cui non ci si rende conto è il livello di rabbia e di ribellione che c’era, perché c’erano delle condizioni che erano veramente allucinanti. Anche se alcune cose sembrano ancora attuali, la situazione è cambiata completamente: la condizione della donna di oggi non si può paragonare con quella del 1968. Il movimento femminista ha completamente cambiato la percezione della donna, di quello che può fare la donna, della sua professionalità, ecc.
Quando dicono che la rivolta degli anni Settanta è finita, non ci si rende conto di qual era la reale situazione di quegli anni, non c’era l’aborto, non c’era il divorzio e per il reato di omicidio era fortemente diminuita la pena se era un omicidio d’onore, per cui un maschio che fosse stato “disonorato” dalla madre, dalla figlia o dalla moglie aveva “il diritto” di ammazzarle, subendo delle pene, poi, ridicole. Il riconoscimento dello stupro come reato contro la persona è del 1996. Questa era la condizione allora. Oggi la condizione è completamente cambiata. Certamente poi, ci sono ancora dei problemi, però noi oggi abbiamo donne che sono avvocati, chirurghi. Adesso non mi ricordo quand’è che ci fu l’accesso delle donne alla carriera della giustizia, ma prima si diceva che una donna, siccome ha il mestruo, non può giudicare perché sennò quando ha la sindrome premestruale condanna tutti. Oggi sono cose che se io le dico faccio ridere. La stessa cosa è dal punto di vista sociale. Il fatto che mia madre sia stata rapita da uomini pagati dai servizi segreti è la prova che lo stato era illegale; la mafia, la criminalità organizzata, i gruppi di potere, la massoneria, ecc. erano dentro lo stato, erano ai vertici dello stato. Potevano permettersi di mettere le bombe o di torturare e stuprare delle donne senza alcun rischio che l’inchiesta andasse a scoprirli. Questa cosa qui non esiste più. Noi oggi siamo scandalizzati ancora, a vent’anni di distanza, dal massacro di Genova, ma quello era quello che succedeva tutti i sabati a Milano e a Roma: se andavi a un corteo lo mettevi in conto che in caso poi ti picchiavano per due giorni.

Io, quello di cui ho avuto la percezione, anche come studentessa, è che ci sia molto oscurantismo riguardo un certo periodo della storia italiana, più o meno dal secondo dopoguerra fino agli anni ’90. Oggi, con l’approfondimento dello studio del teatro di Franca Rame e Dario Fo, mi rendo conto di come certe esperienze non solo debbano essere studiate, ma anche mai dimenticate e, sicuramente, anche Soccorso Rosso dovrebbe essere un qualcosa di molto più conosciuto. Le mie domande a tal proposito, quindi, sono due. Da un lato, come mai secondo te c’è questo oscurantismo? Poi, volevo chiederti se potessi dirmi qualcosa riguardo l’esperienza di Soccorso Rosso.

Oggi non si parla di Soccorso Rosso così come non si parla delle cose più interessanti che succedevano allora, ma anche come delle cose più interessanti che succedono adesso.
Soccorso Rosso è stata una cosa nata dall’emergenza della repressione selvaggia che c’è stata dopo le bombe alla Banca dell’agricoltura di Milano, perché è scattata la caccia al sindacalista, la caccia ai comunisti e ai socialisti e agli anarchici e ci siamo trovati con centinaia di arresti; gente che cercava il padre, il figlio, il marito e non li trovava più e non sapeva neanche dove fossero incarcerati. Ci siamo trovati con gente torturata, con gente legata al letto di contenzione – che era un tavolo di legno con un buco per far cadere gli escrementi ed erano incatenati a questi letti per settimane, per mesi – e la gente ha iniziato a rivolgersi a mia madre dicendole: «Tu sei l’unica che può aiutarci!» E allora mia madre organizzò una rete per cui ogni detenuto, ogni famiglia, erano, diciamo, assistiti, adottati da due, tre, quattro attivisti. Era inoltre tutto un sistema gestito con carta e penna, perché non avevano i computer e le fotocopiatrici, e coinvolse decine di migliaia di persone che soccorrevano i compagni arrestati.
Siccome, quando c’era un pestaggio, mia madre aveva il coraggio di telefonare direttamente al ministro, ogni tanto riusciva anche a cambiare la situazione: riuscì a portare un gruppo di parlamentari nel manicomio criminale di Aversa, che era come un lager nazista, con la gente chiusa dentro stanzoni in mezzo agli escrementi: riuscì a farlo chiudere.
Una donna che si mette a fare queste cose qua, poi bisogna punirla. Ed è quello che è successo.
Dopodiché, Soccorso Rosso perse la necessità di esistere quando, via via negli anni, si affievolì la repressione verso studenti e operai.
In questa situazione, ci fu un’ondata di follia che prese alcuni compagni che diventarono terroristi, senza rendersi conto che stavano facendo una cosa priva di senso.

L’impressione che ho avuto è che in quegli anni così oscuri fosse molto difficile non avvicinarsi agli estremismi, che ci fosse come una necessità di radicalizzazione.

Il problema è che ci furono dei gruppi che mandarono al massacro un sacco di gente. Quando mia madre venne rapita, arrivò da me un noto leader dell’Autonomia Operaia che mi disse: «Abbiamo le armi, abbiamo l’informazione, abbiamo la logistica per ammazzare quelli che hanno rapito tua madre». Io entrai in questa organizzazione, soltanto che era tutto falso. Era la stessa gente che mandò un ragazzo, non mi ricordo il nome ma fu un caso molto noto, un ragazzo di diciotto anni a fare una rapina in banca con una bomba a mano. Questo non aveva mai tirato una bomba a mano, arriva la polizia, lui lancia la bomba a mano, gli arriva sul piede e perde la gamba.
La cosa allucinante – io diventai pacifista dopo -, la cosa che a me sconvolse, era che mi trovai con gente che era pazza e incompetente; la lotta armata è una cosa seria, non si può farla fare a degli imbecilli.
A Milano, un grande fatto fu un’azione terroristica fatta dal gruppo Potere Operaio che, pensando di togliere la comunicazione telefonica alle caserme della polizia e dell’esercito, lasciò ventimila milanesi senza telefono, perché si erano sbagliati. Ed era tutto così. Non era gente che realmente voleva fare la rivoluzione, erano dei dilettanti folli, soltanto che mandavano al massacro noi. Gran parte dei morti, dei feriti, di gente che si è fatta anni e anni di carcere devono solo “ringraziare” questo livello di idiozia. Io uscii dall’Autonomia Operaia, non perché ero diventato pacifista, ma perché era insopportabile vedere la demenzialità.
Ho scritto un libro sul ’681, in cui racconto le interviste che ho fatto a gente che era uscita da dieci, quindici anni di carcere. Parliamo di appartenenti a Prima Linea, parliamo delle Brigate Rosse, di tutti questi gruppi. Loro raccontano il delirio, ed è la stessa cosa che sta succedendo adesso. I gruppi armati, i gruppi che premono per arrivare a uno scontro armato col potere, sono gli stessi che occupano il teatro di posa di Milano della mia famiglia e se ne vanno lasciando ventimila euro di danni. Questi sono ventimila euro che sono stati tolti al Comitato Nobel dei disabili. Io ho venduto quella struttura per continuare l’attività sociale della mia famiglia e mi sono trovato ad avere ventimila euro di meno perché questi hanno rubato, spaccato, danneggiato… che senso ha, tra l’altro, occupare una struttura di gente che ha sempre lottato contro il potere… ma il problema è che era la cosa più semplice. Così come quando spararono a delle persone semplicemente perché era facile sparargli, perché erano amici di famiglia. Tobagi fu ammazzato da Marco Barbone (che era un mio compagno di scuola) e dalla sua compagnia, perché era il bersaglio facile. Sapevano dove prenderlo perché Morandini e Barbone ci mangiavano insieme una volta alla settimana con Walter Tobagi, erano amici di famiglia. Ed è tutto così. Bisogna dire che questi qui erano dei cialtroni! Non avevano nessuna possibilità di fare alcuna rivoluzione, perché gli mancava la cultura, la vera determinazione, la vera passione.

Durante quegli anni poi, c’è stato anche un diffondersi di consumo di droga da parte dei giovani, rappresentato magistralmente nello spettacolo L’eroina, che mette in scena anche le difficoltà dei genitori dei ragazzi nel dover convivere con quel problema. È stato un qualcosa di cui ancora oggi, mi sembra, si faccia fatica a capire le motivazioni dietro un tale abuso di quelle sostanze.


Oggi il fenomeno è ancora fortissimo ma, in qualche modo, si è regolarizzato, in parte. Allora era un momento di crisi sociale, cambiava tutto, cambiava l’immagine della donna, cambiava l’immagine dell’uomo, cambiava il ruolo nel mondo del lavoro, il rapporto con la famiglia; arriva questa cosa nuova che è la droga, nessuno ne sa niente, c’è un’informazione deteriore che ti dice che è tutto uguale dalla canna all’eroina, quindi la gente ci crede e crede che visto che le canne non fanno poi così male, allora anche l’eroina non fa poi così male. Per cui questa cosa qui esplode e viene fuori un massacro.
Ci fu anche una verticalizzazione dei casi di follia. Saltavano le sicurezze, saltavano le strutture, si alzò anche il numero di suicidi. Secondo me l’eroina, il terrorismo, il suicidio, la follia facevano parte di uno stato di disagio dato da un’ansia di cambiamento. All’inizio il movimento era pacifico, ma se uno fa una protesta pacifica e lo massacri di botte una volta, e poi lo massacri di botte un’altra volta, cosa succede? Quello o reagisce o impazzisce. Comunque crei una persona che non è in grado di inserirsi nella società in maniera sensata, perché sta fuori dalla grazia di Dio dalla rabbia, dalla frustrazione e dalla delusione.

Ritornando al tema del pacifismo, avendo letto anche nel tuo libro (Com’è essere figlio di Franca Rame e Dario Fo2) dei rimandi a tale corrente di pensiero, volevo chiederti se fosse stato un avvicinamento nato in famiglia, magari anche in maniera non esplicita, oppure se sia stata una tua scelta personale.

Noi siamo cresciuti con una logica di guerra, perché venivamo da nonni e genitori che avevano fatto la guerra partigiana. In più c’era il mito del Far West, dei film western, quindi per noi la violenza era ovvia. Arrivare a capire che con la violenza non si arrivava da nessuna parte, anzi, che si faceva il gioco dell’avversario e che la situazione della lotta al nazifascismo non era paragonabile alla situazione che vivevamo noi, è stato un percorso lungo e difficile. Riguardo Franca Rame, mi sembra che, all’interno del panorama italiano, sia come persona sia come autrice e attrice, sia stata un po’ un unicum, non solo a suo tempo ma anche ai giorni nostri. È difficile fare dei paragoni, perché magari ci sono persone, ci sono donne, ci sono persone che stanno facendo certe cose di cui oggi non ce ne rendiamo ancora conto. Mia madre comunque è stata continuamente sottovalutata, sotto tanti punti di vista. Ci fu un film, Lo svitato, in cui lei venne doppiata, perché qualcuno pensò che lei fosse talmente incapace di recitare e che avrebbe rovinato il film, questo perché lei recitava in maniera naturalistica, non forzata. Sicuramente mia madre ha fatto un percorso straordinario e unico, poi è anche compito tuo, nel tuo lavoro accademico, determinare l’unicità o meno di Franca Rame.

Il fatto di essere sottovalutata è successo anche nell’attribuzione del Nobel, nonostante Dario Fo stesso abbia più volte affermato che il merito del suo lavoro fosse di entrambi.

Si, e il motivo è che era una donna, nonostante nelle motivazioni del Nobel ci sia anche mia madre come co-premiata, non è stata co-premiata apertamente. Quello che noi stiamo cercando di fare è proprio di riabilitare la figura di mia madre, ad esempio aggiungendola come autrice nei testi teatrali.

Il periodo di attività di Franca Rame e Dario Fo è stato un periodo di grande fermento artistico, specie in Italia. Quali erano i loro rapporti con le varie personalità che gravitavano attorno gli ambienti artistici e teatrali?

Dalla metà degli anni Cinquanta fino a buona parte degli anni Sessanta c’erano dei locali a Roma e a Milano dove si incontravano tutti. È incredibile come questi luoghi diventarono un punto di incontro senza avere internet.
Su Raiplay si trova una serie televisiva (Dario Fo e Franca Rame – La nostra storia), in cui in un’intervista a Dacia Maraini si fa riferimento a Moravia, Pasolini, mio padre, Jannacci, tanti cantanti, ricercatori, attori… c’era proprio uno scambio di idee in questi luoghi di incontro, ed è straordinario da questo punto di vista perché riuscirono a costruire degli ambiti di crescita comune, di sperimentazione. Giravano idee, giravano progetti. Arrivavano dei musicisti dall’America, dei neri, e cantavano il blues… c’era una grande apertura e una grande voglia di scambiare idee. Questa sicuramente è stata una caratteristica che poi non si è ripetuta così forte, anche perché poi sono nati tutta una serie di ambiti di incontro molto più variegati. In quel periodo iniziale, invece, c’erano pochi intellettuali di un certo tipo e pochi punti di incontro.

A tal proposito, riguardo l’esperienza de La Comune, come mai non è riuscita, secondo te, ad essere longeva come i presupposti possono far immaginare che sarebbe potuta essere? Era solo una questione di divergenze di idee?


Quando dei giovani con pochissima esperienza si trovano a lavorare con persone come i miei genitori, che erano estremamente esigenti sul lavoro, estremamente duri, estremamente professionisti e, comunque, qualsiasi cosa facessero, erano sempre all’ombra di Dario Fo e Franca Rame, nascono poi malumori e tensioni. I miei, poi, non erano certo persone capaci di grande diplomazia: se una cosa non era fatta bene diventavano delle bestie.
Sia Nuova Scena sia La Comune non ressero, perché alcuni percorsi individuali portarono poi a una rissa.
Nel gruppo di Nuova Scena, quelli che restarono dentro si portarono via camion, impianti elettrici, fari, palcoscenici: si appropriarono di un capitale di strumenti di lavoro che i miei avevano impiegato anni a mettere assieme.
È un poco la storia di un po’ tutte le realtà in Italia: in Italia abbiamo avuto grande capacità di mettere insieme la gente e poi grande capacità di litigare. La mia esperienza con la rivista Il Male è stata questa: dopo tre anni insieme iniziarono le risse, proprio le risse fisiche, botte, al giornale. Tant’è che non ci sono grandi gruppi che hanno retto a lungo in Italia. In Francia ci sono Le Canard enchaîné, Charlie Hebdo che hanno retto per decenni e decenni. In Italia non è mai successo, noi siamo molto più rissosi, molto più individualisti.

Riguardo l’esperienza di Franca Rame in Senato, si è contraddistinta per la sua forte volontà di cercare di cambiare le cose, in maniera concreta, di migliorare le condizioni di vita dei cittadini, per esempio riguardo la questione dell’uranio impoverito. La lettera con cui esprimeva le ragioni per cui si volesse ritirare dal Senato è un qualcosa di molto forte, che esprime quanto fosse per lei importante la questione, considerando anche quanto abbia cercato di fare nei due anni di permanenza.

Qualcosa è riuscita a ottenere, ma è stato più che altro uno scontro di principi. Posso dire che l’idea di puntare su leggi che avessero l’approvazione di personaggi di destra fu una cosa, secondo me, grandiosa e per nulla capita dai progressisti. L’idea di mia madre era che ci fossero delle leggi di valore che giacevano in Parlamento, pensiamo alla class action. La class action non è una cosa di sinistra. Gli americani negli Stati Uniti non sono di sinistra, ma se tu dici ad un repubblicano di togliere la class action si incazza. È un patrimonio fondamentale condiviso da destra e sinistra. Quindi, puntare su delle leggi che avevano già la firma di persone di sinistra e di destra era un modo straordinario per immaginare una strategia di uomini di buona volontà e di donne di buona volontà per rinnovare la situazione italiana. Questo non fu assolutamente capito dai leader progressisti che trattarono mia madre come una “sciocchina” che non capiva i grandi meccanismi della politica. Invece sarebbe stata una campagna di civiltà ed è una cosa che tuttora bisognerebbe riuscire a fare. Modestamente, alcune leggi, piccole, le abbiamo ottenute con il gruppo di Ecofuturo proprio mettendo assieme persone ideologicamente contrapposte: addirittura, la campagna che facemmo con mia madre per salvare la legge che ha finanziato l’Italia di una cosa come quattrocentomila piccoli impianti fotovoltaici a costo zero, la legge del 2007: nella notte del 27 dicembre 2006 una mano sconosciuta cambiò una parola per cui azzerava i finanziamenti per il fotovoltaico in Italia, ci fu, da una parte, una battaglia in Parlamento di mia madre e pochi altri che ricattarono pesantemente Prodi, perché bastava la defezione di poche persone che cadeva il governo, e dall’altra parte io feci campagna insieme a persone che erano di estrema destra, ma persone oneste e corrette, che sostenevano il fotovoltaico.

Era mossa da uno spirito di grande giustizia.

Si, ma era anche una cosa strategica che la sinistra non ha capito, che i progressisti non hanno capito: bisogna puntare a valorizzare chi è di valore di destra, non è una partita di calcio che dobbiamo avercela con tutti quelli di destra. Come ci insegna il personaggio del libro di Deaglio, La banalità del bene, che è un fascista che salva in Cecoslovacchia migliaia di ebrei facendo documenti falsi, oppure Schindler: ci sono dei nazisti che hanno salvato più ebrei dei comunisti e dei socialisti.

Secondo me, anche rispetto ad altri personaggi che sono riusciti a dialogare più fluentemente con i media, specie quello televisivo, la visione che è stata data di Franca Rame e Dario Fo è stata forse un po’ viziata, probabilmente dando un’immagine anche più radicale di quanto non fossero in realtà.

I miei erano, sì, di estrema sinistra, ma non erano settari. Cercavano di dialogare con tutti. Poi, chiaramente, uno cerca di dire una cosa su Bonifacio VIII, e la Chiesa gli dà addosso, e sembra un estremista. Però, negli anni, ci sono stati dei grandi cattolici, dei grandi teorici anche della Chiesa, eminenti vescovi, che hanno ammesso che lo spettacolo Mistero Buffo o quello su San Francesco erano delle opere che valorizzavano la fede, non la umiliavano. Questo è come quando uno diceva che la Terra gira intorno al Sole: allora era contro la Bibbia. Però c’è una grossa responsabilità da parte della cultura progressista, che è quella che ha colpito i miei genitori, ma ha colpito anche persone come Olivetti e tutta una serie di persone che ragionavano con un paradigma diverso, un paradigma non di tifo politico, calcistico, ma con degli obiettivi da raggiungere positivi. La maggior parte della gente, però, fa teatro o fa politica per il suo successo personale, non perché gli interessi ottenere dei veri risultati. Se guardiamo in televisione, a molti leader progressisti non gliene frega niente di essere capiti dal pubblico, parlano a quelli che li possono votare, che li possono sostenere, per la loro conventicola. Questo è disastroso.

Riguardo sempre la strumentalizzazione: questa è stata fatta anche a proposito dei rapporti di Franca Rame con le Brigate Rosse. Sembra ci sia stato quasi un accanimento, anche dal punto di vista giudiziario, nel volerla affossare.

In realtà i giudici non si sono mai accaniti, si è accanita la stampa. Non c’è mai stato nessun procedimento contro mia madre, su questo. Mia madre non è mai stata incriminata di nulla. La stampa ha cercato di incastrarla.

Un’ultima domanda. C’è qualche episodio o qualche aneddoto riguardo i tuoi genitori che non è stato raccontato o c’è qualcosa che ritieni che sia ancora da dire su Franca Rame e Dario Fo?

Io sono stato educato con un sistema basato sul lavoro, dai miei ho sempre avuto grande fiducia e grande sostegno, però tenevano molto al lavoro. Quando ho deciso di lasciare l’università, mio padre mi ha detto che andava bene, però mi ha detto di fargli venti maschere per settembre. Era giugno e io non sapevo fare le maschere. Mio padre mi ha risposto di andare da Sartori e imparare come si facesse. Imparare un lavoro, non fermarsi e portarlo a termine era una cosa fondamentale.

Jacopo, ti ringrazio veramente molto per il tuo prezioso contributo. Mi hai permesso di cogliere altri importanti aspetti del vissuto di Franca Rame di ieri e della sua attualità oggi.