Il Paradiso terrestre – Ricordo di una conversazione tra Carlo Petrini e Dario Fo

Il Paradiso terrestre – Ricordo di una conversazione tra Carlo Petrini e Dario Fo

La lettura che vi proponiamo oggi proviene da Voler bene alla terra, libro di Carlo Petrini che raccoglie 27 dialoghi sul futuro della terra avuti con i più grandi pensatori, scienziati, scrittori e filosofi del nostro tempo. Da Enzo Bianchi ad Alain Ducasse, da Carlo d’Inghilterra a Don Luigi Ciotti. E detto tra noi, è anche una bellissima idea per un originale regalo di Natale.
Ora mettetevi comodi, fatevi una buona tazza di tè godetevi la chiacchierata tra Carlo Petrini e Dario Fo.

Il Paradiso terrestre – Ricordo di una conversazione con Dario Fo

Qualche anno fa ho partecipato a un dialogo pubblico con Dario Fo. La crisi economica c’era eccome ma non era manifesta come ora, che s’inizia a tremare sul serio. Mi viene in mente, in particolare, una parte della conversazione in cui ragionavamo di memoria. Cerco di raccontarvela, partendo da una riflessione di Dario.

DARIO FO Una delle cose più gravi della nostra cultura è che abbiamo svuotato il sapere della memoria relativa alla nostra origine, alle nostre vicissitudini e, soprattutto, alle lotte e alle tragedie che i contadini hanno dovuto sopportare per secoli.

CARLO PETRINI Credo che siamo seduti sopra una ricchezza incredibile, un possibile motivo di riscatto economico, ambientale e culturale, qualcosa di concreto e affascinante: le nostre campagne, con la loro bellezza e la possibilità di creare cose buone e vite migliori. Chiariamo subito che non si tratta di nostalgia del passato o del richiamo sterile a una tradizione vuota, con un approccio quasi museale. Questa può davvero essere economia nuova: un nuovo modello per affrontare il futuro nella produzione, nella cultura. Con Dario quella sera si parlò tanto di ricordi, ma ci fu una sua storia che mi colpì più di tutte, legata ai suoi ricordi d’infanzia. Lamentavamo infatti che i contadini nelle campagne non ci siano quasi più, a causa di un processo di spopolamento fisico e intellettuale che rischia di portare alla loro sparizione. E lui se ne uscì con la storia di suo nonno Bristin.

DF – Ho sempre raccontato storie, fin da bambino. Ascoltavo quelle dei tanti immigrati che venivano a lavorare al mio paese, Porto Valtravaglia, nelle allora famose fabbriche di produzione del vetro. Parlavano ogni lingua, irlandese, croato, francese, ma da noi apprendevano il dialetto e poi cercavano di comunicare così. È da lì che nasce il gramelot, ascoltando le loro storie in lingue paradossali. Anche se il mio vero maestro nell’arte di raccontare fu mio nonno Bristin, il padre di mia madre.

CP – Allora Dario mi fa piombare nelle campagne della Lomellina di ottant’anni fa. Un luogo di ottima produzione del riso, che ancora oggi conta su un’agricoltura di un certo livello, non del tutto intaccata da quel processo di spopolamento e impoverimento delle campagne, ben raccontato, per quanto invece riguarda le mie zone del cuneese, da Nuto Revelli nel suo Il mondo dei vinti (Einaudi 1977). Negli anni Sessanta e Settanta io e Dario vedevamo l’approdo in fabbrica dei contadini come un motivo di riscatto, nella speranza di una presa di coscienza attraverso la lotta di classe. Altri tempi, altre idee, e non vedevamo lontano e in profondità come Pier Paolo Pasolini, che sosteneva già che «Quando in Italia non ci saranno più contadini e artigiani, allora la nostra storia sarà finita». Ma torniamo a Sartirana Lomellina, il paese di Bristin.

DF – Andare da mio nonno era come andare in un paradiso terrestre. Aveva tantissimi figli e nipoti, ma io a cinque anni ero il suo cocco. Produceva riso, come tutti, ma anche frutta e ortaggi, ed era un vero scienziato della campagna, sapeva tutto quello che c’era da sapere e tutti si rivolgevano a lui per avere consigli. Mio nonno da piccolo era caduto da una scala e si era rotto tutte e due le gambe, quindi dovette stare per molto tempo fermo. Per questo motivo imparò a leggere e a scrivere, tra i pochi del suo paese. Fu un prete a insegnargli, un prete che lo adottò un po’ quand’era bloccato, portandolo sempre in giro con la carriola. Questo suo saper leggere e scrivere lo portò a documentarsi. Era un contadino ma studiava l’agronomia, le tecniche di coltivazione, le diverse varietà di piante. Era davvero uno scienziato: sapeva come usare l’acqua per irrigare senza sprecarla, conosceva le regole della semina e del raccolto, della meteorologia e del succedersi delle lune. Gli altri contadini andavano da lui e lui chiedeva che cosa avevano fatto nei campi, consigliava quali semi mettere a dimora, che lavori fare.

CP – Il nonno Bristin si muoveva a suo agio in un contesto ricco di biodiversità, quando ancora era ritenuto un valore indispensabile nelle campagne, non sostituibile da varietà monoculturali e più produttive, ma necessario invece ad allungare le stagioni o anticiparle.

DF – Sapeva tutto dei semi, a volte diceva a chi gli chiedeva consiglio di tornare da chi gli aveva dato quei semi e farseli cambiare, perché l’avevano fregato. Ma era anche un genio negli innesti e nelle selezioni. Per me, Sartirana Lomellina era un paradiso terrestre perché, per esempio, il nonno mi portava a vedere un suo albero di susine che ne produceva di tutti i colori. Da una parte erano gialle, dall’altra rosse, dall’altra ancora quasi nere. Era un albero a chiazze variopinte, uno spettacolo. Da paradiso terrestre appunto: pensate se Adamo ed Eva avessero avuto quell’albero di susine invece delle mele! Era sempre il primo a raccogliere la frutta e la verdura. La sua abilità gli permetteva di anticipare gli altri anche di 10 o 15 giorni, e i suoi prodotti erano sempre il meglio su piazza. Io lo accompagnavo sul suo grande carro, trainato da un enorme cavallo belga, un gigante mansueto, a vendere i prodotti nelle altre cascine. Arrivava nelle aie, chiamava le donne e iniziava ad affabulare, a narrare, e alla fine vendeva tutto. Quando tornavamo, mi lasciava condurre il carro. Si calava il cappello sugli occhi e si addormentava. Io, che avrò avuto non più di dieci anni, ero tutto orgoglioso di guidare, di dominare quel bellissimo cavallo gigante. In realtà, appresi solo in seguito che non facevo nulla, perché il cavallo conosceva la strada del ritorno a memoria e faceva tutto da solo, lasciandomi soltanto l’illusione di essere più grande di quanto non fossi.

CP – Un nonno, Bristin, che sapeva vedere le connessioni nascoste nei sistemi naturali, un’abilità che a volte lo scienziato tende a scartare nei suoi studi, perché ciò che non si può spiegare con regole certe non è scienza.

DF – Mi faceva assaggiare un pezzetto di peperone e mi chiedeva che gusto aveva. Era dolce, e mi diceva che era così perché stava vicino ai pomodori. Le piante si parlano, s’influenzano a vicenda. Sapeva cosa succedeva un metro sottoterra, dove andava l’acqua, sosteneva che le piante lì sotto si amassero, si uccidessero, si toccassero e si evitassero. Queste cose mi sconvolgevano da bambino, sembravano appartenere a un mondo fantastico.

CP – Studiava, ma sapeva tante cose attraverso l’empiria, il ripetersi delle stagioni e degli eventi atmosferici. Non aveva paura della tecnologia, a dimostrazione che questi saperi non erano in contrasto con le migliorie possibili, se fatte con cognizione e senso del limite.

DF – S’inventò le serande, come le chiamava lui. Fu il primo a coprire con i vetri le coltivazioni, a usare delle serre che si aprivano e si chiudevano. E poi aveva escogitato un sistema di reti per proteggere le piante dalla tempesta, che sapeva sempre prevenire con puntualità. Dieci minuti prima chiamava tutti a raccolta e partiva questa macchina incredibile, con tutti gli altri contadini impegnati a muoverla come se fosse una nave. Mi fece stare sotto durante una grandinata violenta. Una cosa incredibile, pezzi di ghiaccio da tutte le parti, un frastuono che mi impressionò. La nonna, quando finì la grandinata, lo sgridò moltissimo, dandogli dell’irresponsabile, ma lui era sicuro che saremmo stati protetti e ci rise su.

CP – La capacità di essere un innovatore, che però conosceva tutto del passato e del suo contesto, lo portò a essere scelto dalle Facoltà di agraria per fare lezioni agli studenti. Lezioni che non potevano prescindere dalla pratica.

DF – Diceva che la terra se non la muovi non la capisci, portava gli studenti nei campi, parlava loro in dialetto, anche se conosceva benissimo l’italiano. Lo faceva per sfida, ma era convinto che i suoi saperi si potessero esprimere soltanto in quella lingua, che appartenessero a quella lingua. Poi faceva assaggiare la terra, ne prendeva un pezzetto, lo metteva in bocca e ne spiegava la composizione, sorprendendo sempre i professori dell’università. Agli studenti diceva una cosa che fa molto ridere: «Assaggia, lo senti il sale? Poi che cosa senti? L’hai sentito il gusto di merda di vacca? No? Certo, è perché è la prima volta che la mangi!». Tutto in dialetto, naturalmente.

CP – L’oralità era fondamentale, un mondo di comunicazione, relazione, la struttura della conoscenza. Era dunque normale che il nonno di Dario fosse anche un grande narratore.

DF – Dopo che è morto sono andato a recitare a Mortara, a narrare proprio le storie che lui mi raccontava da bambino. I vecchi contadini, suoi amici che gli erano sopravvissuti, vennero a sentirmi e il loro commento fu: «Sei bravo, ma Bristin era più bravo!». Il suo funerale fu una cosa incredibile, ancora stampata nella mia memoria. Vennero da tutte le campagne circostanti, perché tutti si fidavano di lui, non aveva mai dato consigli sbagliati. Lo rispettavano e gli volevano bene. Salvava i raccolti con i suoi consigli, decideva quando era l’ora di muoversi o di stare fermi. C’erano anche tanti preti, anche se lui era ateo convinto. La cosa che mi sconvolse è che vennero tutti in bicicletta. C’era questo feretro accompagnato al cimitero da uno stuolo di bici, il tutto in un silenzio quasi irreale. Un professore di agraria, il più importante di quelle zone, lo ricordò dicendo: «Oggi non è morto un uomo, è morta la più grande collezione di testi scientifici sulla terra e sulla mia disciplina, un maestro della scienza della sopravvivenza e sarà difficile trovarne un altro, perché i contadini stanno finendo».

CP – C’è poco da aggiungere. Mentre ci preoccupiamo per come andranno i mercati, per come usciremo da questa crisi, io penso ai contadini e voglio portare il ricordo del nonno di Dario attraverso le sue parole. Sperando che gli “scienziati” come Bristin un domani possano di nuovo proliferare. Non per tornare a quei tempi che erano anche duri, molto violenti (e Nuto Revelli ben ce l’ha raccontato), o per rinnegare i nostri progressi. Quei suoi saperi, calati nel mondo attuale, potrebbero essere la base per un nuovo modo di affrontare il futuro, con rispetto per la nostra terra e con la capacità di farla fruttare come meglio può. Un nuovo rinascimento, fatto di bellezza, saggezza, relazioni umane diverse e civiltà: in fondo, un modo per essere più felici, per non sentirsi sconfitti come a troppi accade. Sarebbe bellissimo, se Bristin oggi potesse insegnare cose simili a chi muove leve importanti per le nostre sorti.



Estratto da Voler bene alla terra, Slow Food Editore e Giunti Editore

In foto: Fo, Olmi e Petrini alla Cerimonia di apertura del Salone del Gusto e Terra Madre 2014

Articolo pubblicato il 22 dicembre 2014 su Slowfood.it